Categoria: itinerari Page 1 of 2

Piazza Plebiscito

Uno slargo nel sito sul quale insiste oggi piazza Plebiscito esisteva già intorno al 1543 in conseguenza alla costruzione di un palazzo Vicereale, voluto da Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga; l’intervento, diretto dagli architetti Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa, richiese infatti l’espropriazione di parte del terreno dei conventi di Santo Spirito e di San Luigi per realizzare «una spianata» e una strada «innanzi la chiesa di Santo Loise».[1]

Fu solo con l’edificazione dell’attuale palazzo Reale di Napoli, tuttavia, che ebbe effettivamente inizio la storia di piazza Plebiscito. Il progetto venne affidato a Domenico Fontana, che – memore della lezione romana – decise di rivolgere la nuova residenza vicereale non più verso la «strada Toledana», bensì verso il nascente slargo, opportunamente livellato così da fornire una scenografica quinta architettonica alla costruenda fabbrica.[2] In questo modo, l’architetto ebbe anche l’opportunità di far dialogare tra di loro «lo spazio chiuso della vecchia città e lo spazio aperto della marina», come ricordato da Giulio Carlo Argan.[3]

Una volta completato il palazzo Reale lo slargo, finalmente battezzato «largo di Palazzo», divenne rapidamente il centro vitale della città, oltre che un’area pubblica di rappresentanza di tutto rilievo. «Polo decisionale e centro della vita cortigiana», il Largo ebbe anche il merito di creare un polo d’attrazione per la classe aristocratica e nobile, ancora restia a insediarsi oltre il perimetro del centro storico.[4]

Il Largo di Palazzo in età vicereale e borbonica

Veduta del Largo di Palazzo di Gaspar van Wittel

Quando il potere vicereale si insediò stabilmente nel palazzo Reale, il Largo non aveva una conformazione adeguata di piazza. I diversi viceré che si susseguirono nel tempo, d’altro canto, non si occuparono di predisporre un progetto urbanistico di vasto respiro, cercando invece di restituire una configurazione architettonica unitaria mediante l’allestimento di numerose e ricche «sistemazioni effimere». Nel primo ventennio del Seicento, per esempio, il lato del Largo rivolto verso il mare venne abbellito con diversi elementi scultorei, tra cui una maestosa fontana a tre archi progettata da Pietro Bernini e Michelangelo Naccherino, ed un colossale busto di Giove rinvenuto a Pozzuoli, meglio noto come Gigante di Palazzo.[5]

Vista del Vesuvio dalla piazza.

Non di rado, inoltre, il Largo veniva abbellito da scenografici addobbi, spesso allestiti in occasione di eventi legati alla famiglia reale, come attestato nelle incisioni di Nicolas Perrey. Per il primo intervento architettonico di rilievo bisognerà attendere gli ultimi decenni del Settecento, quando venne costruito su progetto di Francesco Sicuro il Palazzo per i Ministri di Stato borbonici: l’edificazione di questa fabbrica, infatti, comportò l’adozione di una nuova sistemazione viaria, oltre che profonde mutazioni urbanistiche.[6]

Il progetto per il Foro Gioacchino

Il progetto per l’emiciclo porticato steso durante la parentesi napoleonica

Nonostante i ripetuti interessamenti, fu solo all’inizio dell’Ottocento, durante il periodo napoleonico, che la piazza cambiò completamente volto. Il nuovo re Gioacchino Murat, nel solco dei vasti rinnovi urbani che stavano coinvolgendo la Francia e l’Europa illuminista, intendeva infatti sostituire quello che era sostanzialmente uno Slargo irregolare con una piazza geometricamente ben definita; solo in questo modo si sarebbe infusa maggiore vitalità ad uno dei maggiori punti focali cittadini, in quanto davanti alla Reggia.

Obiettivo dei Napoleonidi era quello di conferire maggiore grandiosità architettonica al Largo, tramite un modello monumentale che impiegava due quinte architettoniche contrastanti, fiancheggiate da elementi neutri (in questo caso, rispettivamente il porticato semicircolare, la Reggia e i palazzi gemelli).[7]

Decisiva, in tal senso, fu la legge del 7 agosto 1809, che ordinò in tutto il regno di Napoli la soppressione dei monasteri; l’abbattimento dei diversi conventi preesistenti, infatti, portò la superficie totale della piazza a triplicarsi, da 9000 a più di 23 000 m2.[8] In questo modo, Murat già nel 1809 poté sancire l’inizio dei lavori per la «Grande e pubblica piazza», il cosiddetto «Foro Gioacchino»,[9] da realizzare sotto la direzione dell’architetto napoletano Leopoldo Laperuta, coadiuvato da Antonio De Simone.[10] Per la descrizione della prospettiva progettuale murattiana, si rimanda all’esposizione di Teresa Colletta:[10]

«Il nuovo disegno urbano della grande piazza pubblica era formata da un emiciclo porticato dalla forma semicircolare spinto fin sotto la collina di Pizzofalcone, impostato sullo spazio rettangolare sul cui lato lungo prospettava la reggia e chiuso sui lati minori da due palazzi gemelli allineati su uno stesso asse, ortogonale al primo asse di simmetria generato dal Palazzo del Fontana, congiungente l’ingresso reale al nuovo edificio pubblico circolare al centro dell’emiciclo. Il grandioso portico colonnato circoscrivendo la configurazione della piazza con un semicerchio, al cui centro si apriva un edificio circolare pubblico, coperto a volta per pubbliche adunanze, doveva risolvere il problema del fondale con funzione di quinta contrapposta a quella del Palazzo reale per il nuovo Foro Gioacchino, con spazi pubblici aperti e coperti. Nel punto di incontro dell’asse diametrale orizzontale di chiusura dell’emiciclo e dell’asse di simmetria dello spazio urbano vicereale, doveva collocarsi la statua equestre di Napoleone, quale punto focale dell’intero disegno urbano. Ai due lati, raccordati con l’emiciclo, due palazzi pubblici, costruiti in asse tra loro, determinano le due cortine edilizie laterali della parte rettangolare della nuova piazza; i due palazzi gemellari chiudevano la piazza secondo un asse di simmetria ortogonale a quello principale.»

I lavori per la costruzione del Foro Gioacchino, che proseguirono fino al 1815, portarono all’erezione dei due palazzi gemelli (il Palazzo dei Ministri di Stato e il Palazzo per il Ministero degli Esteri), mentre dell’edificio erano complete solo le fondamenta.[11]

La chiesa di San Francesco di Paola in una foto d’epoca

Piazza di San Francesco di Paola

Con il ristabilimento sul trono di Napoli di re Ferdinando IV, avvenuto nell’ambito della Restaurazione, i lavori per l’erezione del Foro Gioacchino vennero bruscamente interrotti. Re Ferdinando, infatti, mal gradiva le intenzioni murattiane di costruire un edificio centrale consacrato ai fasti dei Napoleonidi, e antiteticamente decise di edificare sulla stessa area un «Foro Ferdinandeo», con la conseguente realizzazione di una chiesa cristiana consacrata a Francesco di Paola, come voto nei confronti di quel santo che aveva intercesso per lui affinché si restaurasse la corona borbonica. Il disegno generale della piazza e i due palazzi gemelli, invece, vennero conservati.[12]

Per la realizzazione della fabbrica religiosa, venne indetto un nuovo Bando di Concorso, vinto dall’architetto luganese Pietro Bianchi. Il Bianchi collocò al termine dell’emiciclo due statue equestri, di Carlo e Ferdinando di Borbone (la cui realizzazione venne commissionata al Canova), ed edificò un’esedra porticata a semicerchio, senza continuità verso il retrostante quartiere di Pizzofalcone, così da conferire alla piazza un tono maggiormente aulico e monumentale.[13]

La piazza Ferdinandea, o di San Francesco di Paola, venne solennemente inaugurata nel 1846.[14]

L’attuale nome della piazza fu scelto dopo che il plebiscito del 21 ottobre 1860 decretò l’annessione del Regno delle due Sicilie al Regno d’Italia.

Nel 1885 al centro della piazza venne installata una monumentale fontana, elaborata su progetto di Federico Travaglini in occasione dell’inaugurazione del nuovo acquedotto del Serino. Alla cerimonia di attivazione della fontana, avvenuta il 10 maggio, parteciparono Re Umberto I e la sua consorte Margherita[15]. La fontana, smontata nella prima metà del secolo successivo, ritornò nella piazza cento anni dopo la sua prima installazione, nel 1985, in occasione del centenario dell’inaugurazione dell’acquedotto e anche questa volta fu in seguito smontata.[16]

Nel 1963 un’ordinanza comunale trasformò la piazza in un parcheggio pubblico per far fronte all’incremento incontrollato di autovetture in città.[17] La piazza rimase così deturpata (fra l’altro, oltre al parcheggio vi era anche un’estesa area di stazionamento dei bus del trasporto pubblico a ridosso della carreggiata, ed accolse perfino un ampio cantiere per la realizzazione della Linea Tranviaria Rapida verso la fine degli anni ottanta) fino a quando nel 1994, in occasione del vertice dei G7, la giunta Bassolino le restituì dignità, dapprima sostituendo l’asfalto della carreggiata a ridosso di Palazzo Reale con i più tradizionali basoli, e poi pedonalizzandola in toto.[18]

Dalla riforma bassoliniana, piazza del Plebiscito è diventata lo scenario dei principali avvenimenti cittadini e nazionali: dai comizi elettorali ai concerti musicali, alle cerimonie nazionali ai funerali di grandi personalità, quali Pino Daniele. Tradizionalmente ogni anno nel periodo natalizio sono installate al centro della piazza opere di arte contemporanea, spesso discusse per la loro eccentricità; tra gli artisti che hanno esposto negli ultimi anni si citano Mimmo PaladinoRichard SerraRebecca Horn, e Luciano Fabro.[19]

Descrizione

Vista del Palazzo Reale a piazza Plebiscito dal colonnato della basilica

Piazza del Plebiscito può essere suddivisa in due parti distinte: la prima è ai piedi della Basilica e segue una conformazione semicircolare, mentre l’altra – al di sotto dell’asse di chiusura dell’emiciclo – ha una forma rettangolare, determinata nei lati brevi dalle cortine dei palazzi gemelli e nel lato lungo dal profilo del palazzo Reale.

Nei centri dei due quarti di cerchio in cui è frammentato l’emiciclo, lungo l’asse di chiusura del colonnato, si ergono isolate nella piazza le due statue equestri di Carlo III di Borbone (iniziatore della dinastia borbonica) e di suo figlio Ferdinando I; la prima realizzata da Antonio Canova, mentre la seconda, iniziata dallo stesso Canova e completata con l’inserimento del cavaliere dallo scultore napoletano Antonio Calì.

Come già accennato, la piazza lateralmente è chiusa da due edifici simmetrici ed identici, gli odierni palazzo della Prefettura (verso l’entroterra) e palazzo Salerno (verso il mare). Questi due, fronteggiandosi, formano un ampio spazio di passeggio finalmente delimitato dal palazzo Reale di Napoli; in questo modo, si viene a creare una scenografica piazza rettangolare con esedra porticata a semicerchio, come nelle intenzioni del Bianchi.

Pianta

   Basilica reale pontificia di San Francesco di Paola
   Statua equestre di Ferdinando I
   Statua equestre di Carlo di Borbone
   Palazzo della Prefettura
   Palazzo Salerno
   P

FONTE WIKIPEDIA

Ischia

Sticky post

L’isola di Ischia fu dai Latini chiamata Pithecusa, nome che la tradizione fa derivare dal Greco “pithos” (vaso), cioè l’Isola dei vasai. Altra interpretazione, del tutto fantasiosa, collega il nome a “pithekos” (scimmia). È stato proposto che il nome descriva una caratteristica dell’Isola, ricca di pinete. “Pitueois” (ricco di pini), “pituis” (pigna), “pissa, pitta” (resina) appaiono termini descrittivi dai quali potrebbe derivare Pithecusa, che significherebbe dunque “isola della resina”, una importante sostanza usata, tra l’altro, per rendere impermeabili i vasi vinari.[2] L’espressione “insula visca”, con l’aggettivo greco “(v)ixos” (appiccicoso) e la consueta caduta della “v” iniziale, fornisce una probabile origine del moderno “Isola d’Ischia”. Ai piedi del Vesuvio coperto di pini, il nome popolare di Ercolano era “Resìna”, forse reminiscenza di un antico mercato di questo prodotto, similmente al toponimo “Pizzo” in Calabria, da dove proveniva la resina migliore, la “pece brettia” ottenuta dai pini della vicina Sila.[3][4] Massimo Pittau riteneva che l’etimo derivasse da un più ampio substrato tirrenico di origine preromana[5].

CAPRI LA PIAZZETTA

Capri

Sticky post

L’isola è, a differenza delle vicine Ischia e Procida, di origine carsica. Inizialmente era unita alla penisola sorrentina, salvo essere successivamente sommersa in parte dal mare e separata quindi dalla terraferma, dove oggi si trova lo stretto di Bocca Piccola. Capri presenta una struttura morfologica complessa, con cime di media altezza (Monte Solaro 589 m e Monte Tiberio 334 m) e vasti altopiani interni, tra cui il principale è quello detto di “Anacapri“. È al ventunesimo posto tra le isole italiane in ordine di grandezza.

La costa è frastagliata con numerose grotte e cale che si alternano a ripide scogliere. Le grotte, nascoste sotto le scogliere, furono utilizzate in epoca romana come ninfei delle sontuose ville che vennero costruite qui durante l’Impero. La più famosa è senza dubbio la Grotta Azzurra, in cui effetti luminosi furono descritti da moltissimi scrittori e poeti.

Caratteristici di Capri sono i celebri Faraglioni, tre piccoli isolotti rocciosi a poca distanza dalla riva che creano un effetto scenografico e paesaggistico; ad essi sono stati attribuiti anche dei nomi per distinguerli: Faraglione di terra (o Saetta) per quello attaccato alla terraferma, Faraglione di Mezzo (o Stella) per quello frapposto agli altri due e Faraglione di Fuori (o Scopolo) per quello più lontano dall’isola.

L’isola conserva numerose specie animali e vegetali, alcune endemiche e rarissime, come la lucertola azzurra, che vive su uno dei tre Faraglioni. La vegetazione è tipicamente mediterranea, con prevalenza di agavifichi d’India e ginestre. A Capri non sono più presenti sorgenti d’acqua potabile ed il rifornimento idrico è garantito da condotte sottomarine provenienti dalla penisola sorrentina. L’energia elettrica viene fornita da una società privata in loco.

I comuni in cui è suddivisa l’isola sono Capri e Anacapri. Gli altri centri abitati più importanti sono le frazioni di Capri Marina Grande e Marina Piccola.

Pompei

Sticky post

Una migrazione di abitanti dalle terre dell’Egeo discendenti dei Pelasgi, formò un primitivo insediamento ai piedi del Vesuvio, nell’area di Pompei: forse non un villaggio vero e proprio, più probabilmente un piccolo agglomerato di case posto all’incrocio di tre importanti strade, ricalcate in epoca storica dalla via proveniente da CumaNolaStabia e da Nocera.

Fu conquistata una prima volta dalla colonia di Cuma tra il 525 e il 474 a.C.: le prime tracce di un centro importante risalgono al VI secolo a.C., anche se in questo periodo la città, sembra ancora un’aggregazione di edifici piuttosto disordinata e spontanea.

La battaglia persa dagli Etruschi nelle acque di fronte a Cuma contro Cumani e Siracusani (metà del V secolo a.C.) portò Pompei sotto l’egemonia dei sanniti. La città aderì alla Lega nucerina: probabilmente risale a questo periodo la fortificazione dell’intero altopiano con una cerchia di mura di tufo che racchiudeva oltre sessanta ettari, anche se la città vera e propria non raggiungeva i dieci ettari d’estensione.

Fu ostile ai Romani durante le guerre sannitiche. Una volta sconfitta, divenne alleata di Roma come socia dell’Urbe, conservando un’autonomia linguistica e istituzionale. È del IV secolo a.C. il primo regolare impianto urbanistico della città che, intorno al 300 a.C., fu munita di una nuova fortificazione in calcare del Sarno.

Durante la seconda guerra punica Pompei, ancora sotto il controllo di Nuceria Alfaterna, rimase fedele a Roma e poté così conservare una parziale indipendenza. Nel II secolo a.C. la coltivazione intensiva della terra e la conseguente massiccia esportazione di olio e vino portarono ricchezza e un alto tenore di vita.

Allo scoppio della guerra sociale Pompei fu ostile a Roma: nell’89 a.C. Silla, dopo aver fatto capitolare Stabia, partì alla volta di Pompei, che tentò una strenua difesa rinforzando le mura cittadine e avvalendosi dell’aiuto di un gruppo di celti capitanati da Lucio Cluenzio. Ogni tentativo di resistenza risultò vano e la città cadde ma, grazie all’appartenenza alla lega nucerina, ottenne la cittadinanza romana e fu inserita nella Gens Menenia.

Nell’80 a.C. entrò definitivamente nell’orbita di Roma e Silla vi trasferì un gruppo di veterani nella Colonia Venerea Pompeianorum SillanaTacito ricorda la rissa tra Nucerini e Pompeiani del 59 d.C. nell’Anfiteatro romano di Pompei, che spinse i consoli a proibire per dieci anni ogni forma di spettacolo gladiatorio[3].

Nel 79 d.C. Pompei fu interessata dall’eruzione del Vesuvio, che la seppellì sotto una coltre di materiali piroclastici di altezza variabile dai cinque ai sette metri, determinandone la fine. Al momento dell’eruzione molti edifici erano in fase di ricostruzione a causa del sisma del 62 d.C.

Periodo dopo l’eruzione.

Alcuni reperti bizantini testimoniano l’esistenza di un piccolo insediamento anche nel Medioevo; in questo periodo gli abitanti erano concentrati in località Civiltà Giuliana, a nord della città antica e in posizione più elevata, vista la presenza di paludi e di una forte umidità nella parte più meridionale, nei pressi del fiume Sarno, portatrice di malattie e morte. Successivamente il Sarno fu deviato dal Principe di Scafati, e ciò provocò la morte di quasi tutti gli abitanti della valle di Pompei. I Borboni realizzarono poi alcune opere idrauliche e la foce del fiume fu interamente bonificata e delimitata da argini in pietra. A inizio Ottocento fu costruita la Chiesa della Giuliana. Dal 1805 al 1810 fu denominata Gioacchinopoli, in onore del sovrano.

La Pompei moderna fu fondata dopo la costruzione del Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei. Il Santuario fu consacrato nel 1891.

Il comune di Pompei fu istituito il 29 marzo 1928, acquisendo la parte del territorio di Scafati, denominata Valle di Pompei. Il restante territorio fu ceduto dai comuni di Torre Annunziata, Boscoreale, Gragnano e Castellammare di Stabia.

Personaggio di rilievo fu Bartolo Longo, proclamato beato il 26 ottobre 1980 da Papa Giovanni Paolo II. Per sua volontà fu eretto il Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, ora basilica pontificia, ricca di ex voto, la quale costituisce una delle mete italiane più frequentate “per grazia ricevuta”; in esso è conservata la tela seicentesca della scuola di Luca Giordano, raffigurante la Madonna di Pompei. Un pellegrinaggio si verifica in occasione delle due suppliche alla Madonna, l’8 di maggio e il 7 di ottobre. Si devono a lui anche due strutture destinate all’accoglienza dei figli e figlie di persone carcerate[4].

Ebbe risalto internazionale la registrazione in audio e video, nell’Anfiteatro romano di Pompei, avvenuta nell’ottobre 1971, del concerto dei Pink Floyd, pubblicato nel 1972 come Pink Floyd a Pompei[5]. Il concerto fu tenuto in assenza di pubblico, alla presenza del solo staff tecnico.

Nello stesso anfiteatro l’ex componente degli stessi Pink Floyd, David Gilmour ha eseguito due concerti nel luglio 2016, da queste tappe, del suo Rattle That Lock Tour, è stato tratto un album dal vivo, sia audio che video, dal titolo Live at Pompeii pubblicato nel 2017.

Il 26 dicembre 2020 è stato riscoperto un termopolio magnificamente conservato, con tanto di affreschi intonsi, resti di cibo nelle sue anfore e ormai quasi del tutto emerso dalle ceneri della città soffocata dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

castel dell'ovo

Castel dell’ Ovo

Sull’antico Isolotto di Megaride sorge imponente il Castel dell’Ovo. Una delle più fantasiose leggende napoletane farebbe risalire il suo nome all’uovo che Virgilio avrebbe nascosto all’interno di una gabbia nei sotterranei del castello. Il luogo ove era conservato l’uovo, fu chiuso da pesanti serrature e tenuto segreto poiché da “quell’ovo pendevano tutti li facti e la fortuna dil Castel Marino”. Da quel momento il destino del Castello, unitamente a quello dell’intera città di Napoli, è stato legato a quello dell’uovo. Le cronache riportano che, al tempo della regina Giovanna I, il castello subì ingenti danni a causa del crollo dell’arcone che unisce i due scogli sul quale esso è costruito e la Regina fu costretta a dichiarare solennemente di aver provveduto a sostituire l’uovo per evitare che in città si diffondesse il panico per timore di nuove e più gravi sciagure.

Il Castel dell’Ovo sorge sull’isolotto di Megaride, costituito da due scogli uniti tra di loro da un grande arcone. Su questo isolotto sbarcarono i Cumani (di origine greco-euboica) a metà VII secolo a.C. per poi fondare sul retrostante Monte Echia la città (o, quanto meno, un organizzato centro abitato) di Partenope, di cui nel 1949 è stata scoperta la necropoli in Via Nicotera 10, mentre si stavano scavando le fondazioni per la costruzione di un edificio che ha sostituito un altro distrutto dai bombardamenti dell’ultima guerra.Sull’isolotto e sul Monte Echia, nel I secolo a.C., durante la dominazione romana, fu costruita la celebre villa di Lucio Licinio Lucullo, che, probabilmente, si estendeva con giardini e fontane fino all’attuale Piazza Municipio, come sembra dimostrare una struttura riportata alla luce dai recenti scavi sotto Castelnuovo.Della ricordata villa rimangono i rocchi delle colonne nella cosiddetta “Sala delle Colonne” che, durante l’alto Medio Evo, fu adibita a refettorio di uno dei conventi che furono costruiti sull’isolotto e i resti di un ninfeo sulla terrazza di Monte Echia

Ravello

Sticky post

Ravello, situata su una ripida rupe all’altitudine di 315 m s.l.m., sovrasta Maiori e Minori e gode di un’ampia vista panoramica sul Mar Tirreno e sul golfo di Salerno.È posta sul pianoro che divide la vallata del torrente Dragone da quella dove scorre il torrente Reginna [5].

Ravello fu fondata nel V secolo come luogo di rifugio dalle scorrerie dei barbari che segnarono la caduta dell’Impero romano d’Occidente ma, secondo la leggenda, vi immigrarono alcuni patrizi amalfitani in seguito ad uno scontro tra più fazioni della classe alta amalfitana, che sfociò quasi in una guerra civile.La tradizione racconta che Ravello, come tutti gli altri centri della Costiera Amalfitana, risale all’arrivo di un gruppo di nobili romani, giunti qui in seguito al naufragio della propria nave lungo le coste della Dalmazia, avvenuto mentre si recavano a Costantinopoli. Le tracce archeologiche, anche se molto limitate, fanno pensare ad una frequentazione già in epoca classica con qualche villa, come se ne contano sulla costa.La storia di Ravello acquista maggiore consistenza documentaria a partire dalla creazione della Repubblica marinara di Amalfi il 1º settembre 839, quando tutto il territorio intorno al centro costiero si riunì in Ducato.La cittadina crebbe in popolazione, prosperando con l’arte della lana e con il commercio verso il Mediterraneo e Bisanzio, e raggiunse il suo massimo splendore dal IX secolo, sotto la Repubblica marinara di Amalfi ed il Principato di Salerno.La situazione mutò quando iniziò la semindipendenza del Ducato di Amalfi dal Regno Normanno (1073-1131), durante la quale si assistette ad un continuo sostegno da parte dei Normanni alle famiglie ravellesi più influenti per un controllo maggiore sulla nobiltà amalfitana.Proprio in questo periodo, oltre all’arrivo di uno stratigoto autonomo per la città di Ravello, per volere del normanno Ruggero, figlio di Roberto il Guiscardo, Ravello divenne sede vescovile nel 1086, direttamente dipendente dalla Santa Sede, per contrastare la potente Amalfi.Al volgere del XII secolo la città giunse a contare una popolazione di oltre 25.000 abitanti ma, durante il periodo normanno, ci furono due episodi che interessarono l’intero Ducato e che rappresentarono un momento di crisi: nel 1135 e nel 1137 i Pisani attaccarono il territorio ma, mentre nel primo caso le truppe furono bloccate dalla poderosa costruzione difensiva di Fratte sul Monte Brusara e dall’arrivo dell’aiuto militare di Ruggiero, nel secondo caso non si riuscì a fermare i nemici che saccheggiarono e devastarono il territorio.L’epoca Sveva (1194-1266) vide l’appoggio delle maggiori famiglie locali (i Rogadeo, i Frezza, i Bove ed i Rufolo) a Federico II, ricevendone in cambio incarichi prestigiosi presso la corte. L’epoca Angioina (1266-1398, anno di infeudazione del Ducato amalfitano) registrò la crisi più dura per l’intero territorio: la guerra del Vespro, che scoppiata nel 1282 durò 20 anni, influenzò negativamente l’economia del Ducato, basata soprattutto sui commerci marittimi.Da questo momento in poi cominciò il suo declino economico e demografico: alcune famiglie locali trasferirono i loro interessi commerciali verso la Puglia e, soprattutto durante la prima parte del periodo dell’infeudazione, la città fu funestata da lotte interne e più tardi anche con la vicina Scala.A partire dal XIV secolo molte delle famiglie più importanti si trasferirono definitivamente a Napoli e dintorni, dove continuarono ad esercitare i commerci e gli incarichi presso la corte aragonese, anche se nel 1400 i patrizi ravellesi erano ancora molto attivi. Esempio ne erano i Rufolo, banchieri del Regno di Napoli, all’epoca potentissimi (vedi Ladislao di Durazzo, Re di Napoli).Il feudo amalfitano passò dalle mani dei Sanseverino fino a quelle dei Piccolomini di Siena nel 1583 ma non tutti lasciarono la natia Ravello. Nel 1583, infatti, anche numerosi nobili Ravellesi parteciparono all’azione di riscatto del territorio amalfitano dal dominio feudale, pagando all’ultima discendente Maria d’Avalos, vedova di Giovanni Piccolomini, che mise in vendita il Ducato, i 216 ducati aurei: la popolazione della Costa acquistò il possesso facendo divenire questa parte del territorio demanio reale.Gli storici locali tacciono sui periodi posteriori al riscatto del territorio da parte degli abitanti, quasi che si fosse esaurito il ruolo dell’area nelle vicende storiche, ma anche se si assistette ad un periodo di crisi, determinata dall’allontanamento di molte famiglie da questi luoghi, essi continuarono a vivere e a partecipare alla storia dei secoli successivi.Il decennio francese, per esempio, produsse anche a Ravello ricadute negative a causa della riduzione dei siti religiosi e della soppressione di alcuni cenacoli monastici più antichi e attivi del territorio.Con i Borbone, invece, e con la costruzione della strada costiera da Vietri verso Amalfi, il territorio visse un nuovo momento di fortuna anche perché è questo il periodo della scoperta della Costiera da parte dei viaggiatori europei.Le vicende che accompagnarono poi l’unificazione dell’Italia videro anche il territorio di Ravello, anche se marginalmente, interessato dal fenomeno del brigantaggio, che soprattutto sulle montagne al confine con Scala registrò la presenza di qualche oppositore al potere politico.Il pesantissimo sistema fiscale dell’inefficiente governo spagnolo, però, ne determinò la decadenza, durata sino alla fine del XVIII secolo.Dal XIX secolo, riscoperta da intellettuali e artisti, Ravello riacquistò la sua importanza come luogo turistico culturalmente elitario, dedicato all’ozio creativo, tornando alla ribalta politica nazionale sul finire della seconda guerra mondiale. Infatti, nella cosiddetta Villa Episcopio, proprietà del Principe di Sangro, trovò riparo Vittorio Emanuele III, arrivato da Brindisi. Avvenne in questo luogo la firma del passaggio di luogotenenza da Vittorio Emanuele III al figlio Umberto il 12 aprile del 1944 e il giuramento del Governo provvisorio, con sede a Salerno, che traghettò l’Italia verso la repubblica.

Salerno

Sticky post

Salerno. Durante il Medioevo, la città ha vissuto, sotto la dominazione longobarda, una delle fasi storiche più rilevanti, essendo stata la capitale del Principato di Salerno, territorio che gradualmente arrivò a comprendere gran parte del Mezzogiorno continentale italiano.A Salerno ha avuto sede la Scuola Medica Salernitana, che fu la prima e più importante istituzione medica d’Europa all’inizio del Medioevo e come tale è considerata da molti un’antesignana delle moderne università.[8][9][10] Dal 1968 la città è sede dell’Università degli studi di Salerno,[11] dislocata dal 1988, sotto forma di campus, nei vicini comuni di Fisciano e Baronissi.Dal febbraio all’agosto del 1944 Salerno fu sede del governo italiano,[12] ospitando gli esecutivi Badoglio I, Badoglio II e Bonomi II che portarono alla Svolta di Salerno.La città sorge sull’omonimo golfo del mar Tirreno, tra la costiera amalfitana (a ovest) e la piana del Sele (a sud est), nel punto in cui la valle dell’Irno si apre verso il mare.Dal punto di vista orografico il territorio comunale è molto variegato, infatti si va dal livello del mare fino ad arrivare ai 953 metri del Monte Stella. L’abitato si sviluppa lungo la costa e si estende verso l’interno fino alle colline retrostanti.La città è attraversata dal fiume Irno, che fino alla metà del secolo scorso ne segnava il confine orientale e da cui, probabilmente, deriva il suo nome. Altro corso d’acqua che scorre nel territorio comunale è il fiume Picentino, che ad oriente di Salerno separa la città stessa dalla confinante Pontecagnano Faiano. Nella città è presente anche un piccolo lago, il Lago di Brignano (“O fuoss ra cret” in vernacolo salernitano).

Il clima è tipicamente mediterraneo, con inverni miti e umidi ed estati moderatamente calde.

La conformazione orografica del territorio fa sì che la città sia spesso interessata dai venti. Le correnti provenienti da sud sud-ovest si scontrano con la barriera naturale dei monti Lattari che le convoglia nella valle dell’Irno; viceversa le correnti provenienti da nord si incanalano nella valle dell’Irno che funge da imbuto facendo convergere i venti sulla città. Il primo fenomeno genera venti di una certa intensità, soprattutto nel periodo tra estate e inverno; il secondo fenomeno è frequente durante l’inverno in coincidenza delle irruzioni d’aria fredda provenienti dai Balcani. Nella stagione invernale, le nevicate in città sono sporadiche. Episodi nevosi con accumulo, avvenuti recentemente, sono gli ultimi due giorni del 2014 (30 e 31 dicembre), l’Epifania del 2017 (6 e 7 gennaio), il 26-27 febbraio 2018 e il 5 gennaio 2019, in quest’ultima occasione con il record storico di accumulo nivometrico nelle frazioni collinari di almeno 30 anni (7-10 cm). Le frazioni collinari, in ragione della loro maggiore altitudine rispetto al nucleo urbano cittadino, possono talvolta essere interessate da brinate o gelate, molto più sporadiche nel centro urbano stesso (ma non rare nelle diverse zone più fredde della parte orientale della città, anche vicino al mare, come nella zona di Sant’Eustachio, Torrione, Pastena, le colline di Giovi e la zona di Fuorni/area industriale).

NAPOLI

Napoli

La città di Napoli, nell’Italia meridionale, sorge nel cuore dell’omonima baia accanto al Vesuvio, il vulcano attivo ancora oggi e noto per aver distrutto l’antica città romana di Pompei. Risalente al secondo millennio a.C., Napoli ha alle spalle secoli di storia dell’arte e di architettura e la sua cattedrale, il Duomo di San Gennaro, è ricca di affreschi. I luoghi storici di maggior interesse sono il sontuoso Palazzo Reale e il Maschio Angioino, un edificio del XIII secolo. 

Collegiata di San Giovanni Battista

Chiesa madre di Angri, fu eretta nel 1302 in puro stile romanico, su una precedente chiesa dedicata a Sant’Angelo del 1180, dal conte di Nola Romano Orsini. Divenuta “Insigne Collegiata” nel 1475 con la bolla pontificia di papa Sisto IV, nel ‘700 venne ricostruita all’interno in puro stile barocco.
Dell’epoca rinascimentale, è rimasta intatta la splendida facciata in bugnato di piperno tagliato a cuscino, nella quale sono incastonati tre splendidi portali marmorei e un rosone poliombato autentico fiore in pietra d’arte catalana, che ha pochi simili in Europa.

La Collegiata a pianta latina a tre navate, conserva al suo interno:

il prezioso polittico di scuola fiorentina, realizzato nel 1510 ed attribuito a Simone da Firenze;
un imponente organo con tremila canne ornato da numerosi fregi ed angeli in legno e in stucco dorato;
lo splendido altare maggiore in marmi policromi;
il settecentesco coro ligneo in noce di Calabria, sui cui scanni Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, annunziava al popolo la Divina Parola;
il cassettonato ligneo intarsiato e ricoperto da oro zecchino, nel quale sono incastonate le tre tele di scuola caravaggesca del Fulotti realizzate nel 1747 e raffiguranti la Nascita e il Martirio del Battista;
un tela esprimente l’estasi di Santa Rosa da Lima di Angelo Solimena datata 1679;
un crocifisso ligneo del XIV-XV secolo;
una tela sagomata esprimente San Giacinto del 1630 realizzata da Domenico de Marinis;
il busto argenteo e in bronzo del Patrono commissionato nel 1718 dall’Universitas Terrae Angriae;
la statua lignea del Patrono San Giovanni Battista, opera bizantina, portata in tempi remoti da alcuni navigatori amalfitani.

Monumento ai Caduti

Il Monumento ai caduti di Angri è un monumento pubblico situato in piazza Doria, al centro della cittadina di Angri, dedicato ai caduti della prima e della Seconda Guerra Mondiale.

Fu realizzato da un progetto dell’ingegnere Paolo Caiazzo e del signor Marcellini a partire dal 1924. Il monumento fu inaugurato dal Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio l’11 febbraio del 1940 e inizialmente riportava i nomi dei 150 Caduti della guerra turca e della Prima Guerra Mondiale. Sul monumento era presente una lapide dedicatoria stilata dal professor Carlo La Mura che recitava “qui fanciulli sognammo la vita serena; ma la gittammo nel turbine della guerra, sicuri del vostro ricordo, o Concittadini di Angri.” Tale iscrizione è stata successivamente coperta con la lastra in marmo che riporta i nomi dei 235 Caduti angresi della Seconda Guerra Mondiale.

Il monumento è costituito da una gradinata a cinque scalini, su cui è poggiato un rilievo in bronzo, con raffigurati due elmi, due spadini, due fucili e rami di quercia. La statua della Vittoria alata, coperta da un peplo che le lascia scoperto un seno, appoggia un piede sull’ultimo scalino ed ha un braccio proteso in avanti portando in mano l’elsa di una spada. Grossi blocchi di pietra sono assemblati a formare tre livelli su cui poggia un basamento in marmo. Sui quattro lati sono posti gli elenchi dei caduti. In alto, un gruppo scultoreo in bronzi raffigura un fante che solleva in alto una bandiera raccolta e sorregge un commilitone morente.
 

Page 1 of 2

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén